ARTE e CULTURA dell'IO 

 

 

 

La Regina e il Biancospino

   Nel cuore di un boschetto incantato viveva un Biancospino vecchio di 500 anni, dal tronco ritorto e nodoso, sui cui rami crescevano bacche polpose grosse come noci che attiravano ogni genere di insetti, tordi, merli, pettirossi e tantissimi scoiattoli. Poco lontano, in un grazioso castello, viveva una Regina tanto triste quanto buona, rimasta vedova a causa di un crudele usurpatore che, per impadronirsi del Regno e delle virtù di Lei, aveva fatto uccidere il Re col veleno degli aghi di un Tasso millenario. Il profondo dolore per la morte dell’amato marito consumava, giorno dopo giorno, il fragile cuore della Regina, minacciando gravemente la sua stessa vita e quella dell’unica figlia che il Re le aveva lasciato.

   Una mattina, inseguendo una bianca colombella cui aveva preso a confidare le sue pene d’amore, la Regina si allontanò dal giardino del castello e penetrò nel vicino boschetto, oltre la siepe di Pruni selvatici, fitti e spinosi, che ne proteggevano la parte più interna. Presto vide il meraviglioso Biancospino le cui rossissime bacche la attirarono come il miele le api. Nel prenderne una, però, si punse con una delle sue spine e subito si assopì.

   La Driade che dimorava all’interno del Biancospino, volendo lenire un po’ del suo dolore, la condusse nel Regno delle Ombre Bianche, dove nessun vivo era mai entrato senza la guida di uno Spirito del Bosco. Il Re, che lì viveva, appena la vide versò sulla sua fronte dell’acqua proveniente da una Sacra Sorgente situata nel centro del Regno, e la baciò. La Regina presto si svegliò e, vedendo il suo caro marito, pur credendo di essere morta, scoppiò in lacrime di gioia. Anche il Re fu felice nel vederla, lui che da lì sempre la osservava vegliando sulla sua infelice vita e su quella dell’unica figlia. Sapeva di essere stato ucciso con l’inganno e conosceva le crudeli mire del suo assassino, ma nel suo cuore mai l’odio o il desiderio di vendetta avevano trovato posto, perché era così nobile e generoso da amare e perdonare anche i suoi nemici.

   Il Regno delle Ombre Bianche, del resto, ospitava solo i puri e i buoni, e nessuna ombra malvagia poteva penetrare in esso, né allora né mai. Anche nel cuore della Regina albergavano purezza e generosità, cosicché le fu concesso di entrarvi, accompagnata dalla Ninfa del Biancospino. In lacrime, raccontò al marito i soprusi che ogni giorno insidiavano la sua virtù e il trono, e tanto era il suo dolore, ma ancor più il suo amore, che avrebbe voluto restare accanto a lui per l’eternità. Il Re però, che pur desiderava tenerla con sé, sapeva che non era permesso, a meno che la natura malvagia del suo assassino non fosse estirpata del tutto e la sua luce tornasse a risplendere.

   La Regina, tuttavia, non credeva potesse esserci qualcosa di buono in un uomo così crudele, ma il Re la convinse della natura buona di ogni creatura e le spiegò che, se voleva ricongiungersi a Lui nel Regno delle ombre Bianche, avrebbe dovuto recarsi nel Regno delle ombre Nere, dove era custodita la sacra Spina che aveva trafitto la fronte del Salvatore. In quel Regno le anime dei malvagi si purificavano da ogni crudeltà commessa o anche solo pensata e talvolta impiegavano secoli prima di potersi liberare e accedere al Regno delle Ombre Bianche. Per entrarvi, la Regina avrebbe dovuto tuffarsi nella sacra Sorgente che collegava i due Regni attraverso un canale stretto e buio.

   Impaurita ma fiduciosa, acconsentì per amore del suo Re. Nuotò per ore e ore finché svenne sfinita. Al risveglio, un’ombra si chinò sul suo viso e le cosparse la fronte di cenere ancora calda. La condusse poi verso un recinto di rami di acacia al cui centro, su una pietra nera come la pece, era posata la Spina dello scandalo. La Regina la prese nelle mani e, al solo toccarla, cadde in un sonno profondissimo che la riportò al giardino del castello. Destatasi, vide la bianca colombella giacere accanto a Lei e, sentendo la Spina nelle mani, rabbrividì. Al calare delle tenebre, come stabilito, punse nel sonno il crudele assassino, proprio al centro del petto. Gocce di nero sangue uscirono. Presto si svegliò e, appena vide la Regina, confessò il suo crimine e le chiese perdono. La Spina scomparve per miracolo dalle mani di lei come la malvagità dal cuore di lui. Vedendo che ora nei suoi occhi brillava la luce, gli lasciò in sposa la sua cara Figlia, prima di tornare nel Regno delle Ombre Bianche, dove il suo amato Re la attendeva felice.

   E il Biancospino? È ancora lì e sui suoi rami una bianca colombella becca qua e là le sue rosse bacche.   

(tratto da un mio inedito)         


Lettera Raccomandata

   Mi interrogo, con un senso di urgenza che mi scuote come una sirena dell’ambulanza man mano che si avvicina, su ciò che mi circonda. La prima cosa che incontro — percorrendo a piedi un sentiero che, fino a qualche anno fa, si inoltrava nel bosco — è proprio l’Ambiente, parola dall’etimologia curiosa ed eloquente: participio presente del latino ambire, andare attorno (detto anticamente di coloro che, ambendo a cariche pubbliche, andavano in giro a procacciarsi voti…), da cui luogo circoscritto nel quale cose o persone si muovono o vivono; in senso generale, Natura. Mi guardo intorno e, salendo fino a una piccola cresta, mi vedo attorniata (l’anglosassone environment rende bene) da un senso di ampiezza che distende il respiro: il profilo delle colline, senza soluzione di continuità, sembra allargarsi fino al mare e alle montagne, donando allo sguardo suggestioni indicibili. Percepisco chiaramente la mano divina che ha posto in essere tale bellezza, provando un senso di commozione e gratitudine per questo capolavoro di Creazione. Eppure, guardando meglio, la mano dell’uomo è ovunque: così deve essere, in quella profonda relazione tra Natura e Cultura di cui l’uomo è, o dovrebbe essere, artefice e sommo custode. Le responsabilità sono immense; le cadute, purtroppo, tante. Osservo ancora meglio e quello che si palesa, senza ombra di dubbio, è l’uniformità del paesaggio, contraddistinto dalla geometria monotona dei vigneti che tappezzano le colline — strappati alla terra con insensata ostinazione— e da una ininterrotta fila di pali che, in inverno, somigliando a cimiteri squadrati, mostrano tutta la fragilità e l’ingannevole bellezza di questa monocoltura.

   Non posso fare a meno di aguzzare lo sguardo interiore e interrogarmi: a quale prezzo, mi chiedo? Fino a quando quell’artefice e custode dell’equilibrio saprà fermarsi in tempo — o è già troppo tardi? — spegnendo i bottoni del disboscamento e, possibilmente, ripristinando quanto è stato sottratto arrogantemente alla Creazione? Con quali conseguenze si uccide la biodiversità, sacrificandola sull’altare della produttività? Con quale legittimità si tagliano interi boschi per fare posto a strutture che, tra altri difetti, sono un insulto alla bellezza del paesaggio? Siamo forse i padroni della Terra? Non hanno forse diritto, le creature che abitano questi luoghi insieme a noi, di continuare a vivere e prosperare? O devono estinguersi, come quelle preziose sentinelle della salute del territorio che sono i ricci, così sensibili all’inquinamento da pesticidi, alle variazioni climatiche e alle conseguenze nefaste della monocultura?

   La questione è più complessa e, per comprenderla, oltre alla vista devo aguzzare anche l’udito e i sensi ancora più sottili dell’intelligenza e della misura. Mi si fa incontro, spontaneamente, la parola Legge, la Lex dei latini, definita custode dell’equilibrio tra individuale e universale, da cui derivano ordine, salute, armonia e giustizia. Questo, ovviamente, soltanto finché non si fa della legge un concetto astratto, perdendo così la realtà profonda che vuole incarnare: essere giusti, per capirci, è esserlo concretamente, non idealmente. Non basta: per essere applicata, la legge deve prima accogliere il principio di equità, giudizio intuitivo relativo al singolo individuo o circostanza, la cui sorte è in gioco (quello, mancando il quale, si arriva a ‘lavarsene le mani’ come Pilato). È l’equità ad avere l’ultima parola, dopo lo sforzo della coscienza di porsi al di sopra dell’apparenza dei fatti e alla logica formale degli argomenti. Equità: parola che mi si para davanti, suscitando vertigini di consapevolezza.

   Fin qui, pensieri e altri, spontanei interrogativi (Chi custodisce i custodi? Chi può farsi garante di qualcosa che interpella principi di libertà così elevati e tragicamente sfuggenti a chi non abbia un senso morale ed etico adeguatamente sviluppato?). Cerco di metterli a terra e l’udito mi aiuta: sento i trattori che fanno avanti e indietro tra i filari, mentre le nubi si addensano minacciose e i cannoni antigrandine cominciano a sparare fragorosamente: non lo sanno che i cristalli di ghiaccio si formano ad altezze alle quali la loro onda d’urto è meno di un battito di mani? Vogliono forse gareggiare con la potenza di un tuono? Se l’inquinamento acustico, tuttavia, è trascurabile, se pur irritante; quello aereo, no: l’odore dei prodotti chimici spruzzati per tenere lontani i parassiti o per fertilizzare è, per le mie narici sensibili, talmente fastidioso da indurmi un senso di nausea. Le viti sono sempre più deboli e, senza, non produrrebbero. Cosa resta, nel vino, di tutto questo? Nella terra, nei suoi prodotti, nell’aria, nell’acqua, unitamente agli altri fattori inquinanti che continuiamo a scaricare nell’ambiente, qui e ovunque, ostinandoci a ignorare volontariamente i dati degli studi scientifici e le previsioni degli esperti? 

   La viticoltura, si sa, è cosa molto antica (Bacco significa ‘virgulto’, relativo a tralci o rami che spuntano) e, come per gli ulivi, anche per le viti esistono luoghi di elezione. Entrambi, ulivi e viti, hanno tronchi nodosi e tormentati, segno di misteriosi e profondi lavorii nei processi formativi: del resto, non sono forse, i loro frutti, veicoli di ancora più profondi significati spirituali? Ma dovrei dire erano, perché a parte l’olio santo e il vino eucaristico, nulla più resta di tale eredità. O, almeno, così sembra. Cosa molto antica, dicevo. Tradizione, innovazione. Ormai è una cantilena che fa assopire, proprio come il vino se non si è moderati. Io, però, sono desta e i miei sensi sottili continuano a lavorare, suscitando considerazioni che nascono spontanee. Non ci va granché per immaginare quanta manodopera sia necessaria ai lavori vitivinicoli e, in un calcolo approssimativo per difetto, do per certo che sia un valore decisamente alto. Dove sono i lavoratori che fanno ricco e famoso in tutto il mondo questo pezzo di Terra? Li incrocio, ignorando chi siano? Li vedo, lì nelle vigne? Quanti sono ma, prima ancora, chi sono? Da dove vengono e, soprattutto, come stanno, come si trovano qui?

   Non è il pungolo della curiosità quello che mi fa decidere di saperne di più: in un istante, realizzo. Non posso aspettare che certe evidenze cadano dal cielo: il mio senso della verità mi impone di essere nel posto giusto, creando le condizioni per accoglierle, quelle evidenze, in assenza di preconcetti, senza remore di incredulità e con la determinazione, una volta accolte, di fare la mia parte. Le ampiezze di cui parlavo all’inizio mi hanno evidentemente predisposto ad allargare la mia percezione di ciò che mi circonda, l’Ambiente Natura prima, l’ambiente come luogo circoscritto poi, in cui persone o situazioni si muovono o vivono. Persone, quindi anche io, io come creatura terrestre, io come artefice e custode di equilibrio, io come abitante di una fetta di mondo, pur considerandomi, come il filosofo Diogene, ‘cittadina del mondo’. Cosa fa il filosofo di Sinope con una lanterna accesa in pieno giorno? Cerca l’uomo.

   Non cinica come Diogene, ma realista e pur fiduciosa, profondamente fiduciosa, vado in cerca di quegli uomini che lavorano tra i filari. Li chiamano invisibili, non visibili, ma è sbagliato: non visibile è ciò che non può essere visto, non ciò che non si vede e, loro, puoi vederli benissimo. È questione di prospettiva: chi non vuole vedere, distoglie lo sguardo; chi vuole vedere, vede. E chi vede, è anche visto. E chi è visto, a volte preferirebbe non esserlo, per senso di vergogna. Mi avvicino a questi uomini in punta di piedi, cercando di non offendere la loro sensibilità con una pietà ipocrita. I loro occhi sono di una densità che mi inchioda. Comunicano sconcerto, paura, angoscia, stanchezza, amarezza, rassegnazione. E una delusione che mi rimbomba dentro perché, in un modo o nell’altro, ne sono responsabile anch’io. Ho peccato di indifferenza.

   Se volessi recuperare, lo farei per lavarmi la coscienza, per me stessa, e sarebbe altrettanto ipocrita. No, non voglio recuperare. Voglio semplicemente esserci e, per come mi è possibile, fare agli altri ciò che vorrei fosse fatto a me.

  La lanterna del filosofo fa luce a sé e agli altri nel difficile sentiero della verità. So che, se voglio percorrerla, devo scrollarmi di dosso il diritto, così caro all’uomo contemporaneo, dell’opinabilità. Opinione e Verità sono inconciliabili; al massimo, la prima instrada verso la seconda, ma inevitabilmente si incontra un bivio e decidere da che parte stare è imprescindibile se si vuole proseguire. Ercole lo sapeva bene. Certo, le sue dodici fatiche sono cose da eroe, ma la strada della Virtù è sempre costellata di difficoltà, come quella della Libertà. Almeno, però, è diritta.

   Diritto: dal latino dirigere, porre in linea retta, da cui, fra gli altri significati, ‘diritto’ in quanto principio di giustizia dal quale prendono norma o misura gli atti della libertà umana; ciò che spetta a ciascun individuo (diritti) secondo la legge naturale o positiva. Vale a dire, secondo una legge di natura o secondo una legge di cultura. Di nuovo, faccio i conti con la Lex e con quel nobile e nobilitante esercizio di essa che è la Legalità (da non confondere con Legittimità, pratica di conformità dal carattere più superficiale), di cui esplicitamente si ammette, oltre al principio, anche il sentimento. Che bella espressione: sentimento di Legalità.

   Il quadro si è arricchito di elementi e la luce della lanterna comincia a fare effetto, illuminando anche gli anfratti nei quali si nascondono le comode semplificazioni e, peggio, le ipocrite scorciatoie di un pensiero debole. Dopo aver incontrato Ambiente, Legalità e Diritti, provo a cercare un possibile elemento comune e questo elemento, o principio, mi pare l’essere, tutti e tre, realtà nelle quali l’uomo ha la grande responsabilità di esprimere, in virtù della propria forza morale, l’equilibrio tra Natura e Cultura, tra ciò che non è creato da lui e ciò che è creato da lui. Concettualmente, Ambiente in quanto Natura è natura percorsa, circoscritta, osservata dall’uomo; luogo in cui esseri viventi (minerali, vegetali, animali, umani) possono o, talora, non possono coesistere e nel quale le condizioni fisiche rispondono a leggi non create dall’uomo e immodificabili o modificabili solo con estrema lungimiranza. La presenza umana è, prima che culturale, naturale: l’uomo è Natura, è creatura e abita il pianeta insieme ad altre creature (per lo più con un sentimento di superiorità); l’uomo è Cultura, è creatore di tutto ciò che non è ‘dato’ e di cui solo lui, tra tutte le specie viventi, è portatore: Scienza, Arte, Religione. Natura e Cultura, nell’essere umano, dialogano costantemente, ponendo le basi del progresso materiale e spirituale. La Lex (con i suoi simbolici attributi, la bilancia e la spada) è creazione culturale degli uomini — ma, per la sensibilità religiosa, un dono divino non perfettibile — e, nella sua espressione pura, semplice, non cavillosa —ispirata, mi viene da dire — traduce perfettamente il livello morale di una comunità che si dà delle regole per salvaguardare il benessere di tutti. Più leggi, minore coscienza morale (è nel tribunale della mia coscienza che devo praticare la giustizia; è con la moralità che rispetto i diritti altrui, prima di farlo con le leggi): se fossimo tutti più evoluti moralmente, così da scegliere il Bene, non ci sarebbe nemmeno bisogno di leggi.  

   Tuttavia, non esiste moralità senza una profonda attenzione per l’altro, per il prossimo, sia esso un proprio simile o altra creatura vivente. Il principio, e ancor più il sentimento della Legalità, esprimono proprio questa moralità (di cui la Legge è, infine, traduzione e forma). Ugualmente per i Diritti: senza un vero interesse per l’altro, non sussiste in me la condizione di riconoscere a ciascuno ciò che gli spetta, in senso materiale ma ancor più universalmente umano. Si è delegato al Diritto il compito di stabilire ciò che è lecito e ciò che non lo è e alla Giurisprudenza di interpretarlo ed applicarlo; tuttavia, c’è qualcosa che non si può delegare, ed è la propria coscienza. La propria libertà.

   Ci sono diritti e doveri, necessità e libertà. Necessità, però, non è l’opposto di libertà: come diceva il filosofo Spinoza, l’opposto della libertà è la costrizione. E dove c’è costrizione, c’è inciviltà, immoralità, disumanità. È tollerabile che un lavoratore onesto e volenteroso sia pagato una miseria o, addirittura, non pagato? Che sia costretto a vivere in condizioni indegne per un essere umano e privato delle prospettive di vita più elementari, senza le quali spesso risulta estremamente difficile ricongiungersi ai propri cari rimasti in patria? Relegato ai margini e additato come indesiderato, una volta che abbia svolto il proprio prezioso lavoro? È tollerabile che una comunità — che prospera soprattutto grazie a quel lavoro — continui a serrare gli occhi e le orecchie, inciampando così in una pietra di scandalo grossa come il debito contratto? Può, un bicchiere di vino, una passata di pomodori, la frutta e la verdura sulle nostre belle tavole, costare anche le lacrime e il sudore di un uomo?           

   Quanta strada ha fatto questa nostra specie. Caccia e raccolta prima, agricoltura e allevamento poi, sono, dalla notte dei tempi, i punti cardinali entro cui si snoda la sussistenza umana e la capacità, propria dell’uomo, di fondare comunità, regni, culture e civiltà. Tutto il patrimonio di tradizioni e saperi testimonia di questa incessante vocazione umana a proiettarsi nel tempo e nella storia non solo con impulsi evolutivi più o meno forti, ma anche con la volontà di lasciare tracce di sé, in un sentimento di continuità che fa dell’umanità tutta un’unica, incommensurabile realtà, nella quale confluiscono le generazioni passate, presenti e future. Il che, sento doveroso ricordare, richiama tutti noi, abitanti sulla Terra e sotto lo stesso Cielo, a essere profondamente grati e responsabili. Grati, per quel che di saggio ci è stato trasmesso. Responsabili, per quel che di altrettanto saggio sapremo trasmettere.

   Quanto a ciò che di ‘non saggio’ abbiamo ricevuto e che tuttavia abbiamo fatto nostro, i tempi attuali esigono – senza diluizioni – il trovare nuove strade per la tutela dei territori e delle biodiversità, per la conservazione del patrimonio colturale inteso come tecniche ma ancor prima come gesti che sottolineano identità, per la difesa del clima, delle risorse idriche ed energetiche, delle altre specie che abitano il pianeta, della bellezza paesaggistica, dei valori umani — universalmente validi — e delle qualità che fanno del singolo una creatura unica e irripetibile, custode dell’equilibrio e chiamata a contribuire a che tutto questo non sia solo un vuoto chiacchiericcio, ma un fatto concreto, virtuoso e libero.

   Mentre cerco il piccolo nel grande e il grande nel piccolo — realizzando, per come è concesso all’uomo, l’infinito — ecco: il cielo si schiarisce dopo il temporale e, insieme alla lieta visione dell’arcobaleno, mi viene incontro l’immagine dell’arca. Rimandava, l’arco sulle nubi, al segno dell’alleanza tra Dio e la Terra, tra Dio e gli uomini, dopo che Noè fece entrare nell’arca, ‘degli animali puri e di quelli impuri, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo, un maschio e una femmina’, come Dio aveva comandato, per salvarli dal diluvio. In tutta la sua bellezza, anche l’arca che immagino richiama – fatte le debite differenze – un’intenzione salvifica: proteggere e custodire la Natura e la Cultura. Non solo. L’arca mi appare come un luogo di giustizia e prosperità, una (b)arca su cui tutti gli uomini, nessuno escluso, sono accomunati dalla speranza di salvezza e dalla buona volontà di operare la pace.

   Illusione? Utopia?

   Se guardo i cespugli di ginestra —proprio qui, sul bordo del sentiero —; se dilato lo sguardo a queste ampiezze e oltre, annusando i profumi senza lasciarmi inebriare oltre misura, allora so che non è un’illusione. La forza c’è. È lì. Illusione è – superbia è, solo umana - credere di poter coltivare la terra e sfamare i popoli senza applicare la saggezza, l’equità, la lungimiranza. Di poter spremere, insieme all’uva, la disperazione dei tanti braccianti che, prima di essere braccia, sono persone, a cui vengono negati non solo dignità e diritti, ma i più elementari gesti di umanità. Di poter continuare ad abitare questo meraviglioso pianeta, incontrando altre nature e altre culture, altri uomini, senza il rispetto e l’amore. Perché, dice ancora Dio a Noè, della vostra vita io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto alla vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello’. Non c’è bisogno di essere credenti per sentir risuonare dentro di sé la potenza ammonitoria di queste parole. Basta essere umani. Perché tutti, tutti noi, siamo sulla stessa (b)arca, ma qualcuno, troppi, sono sui barconi della morte.

"Solo l'assoluta identificazione della giustizia con l'amore rende la compassione e la gratitudine compatibili con il rispetto degli sventurati da parte sia degli stessi sventurati sia degli altri"

Simon Weil

 

Langhe, estate 2023

  


L'innocenza del biancospino

   Anch’io, come Ceronetti, non mi stanco di citare, di ripetere a me stessa questo pensiero di Victor Hugo: ‘Nessun pensatore oserebbe dire che il profumo del biancospino non è importante per le costellazioni’. Lui, Ceronetti, voleva proporlo come ‘summa indicibile del verdismo astratto, del verdismo speculativo e fiore che nella teca del cuore non rinsecchirà..’. Caro Guido, era il 1989 quando, nella prefazione a Ecologia domestica di Fulco Pratesi, lasciavi in eredità, tra gli altri, non solo un pensiero, quello hughiano,  ‘così folgoralmente esatto’, ma l’altrettanto esatta lungimiranza di chi, con la lanterna del filosofo in mano, fa luce a sé e agli altri. Gli altri siamo noi, noi che assistiamo – qualcuno attonito, qualcun’altro perplesso o  indignato o tristemente rassegnato – alla deriva del mondo.  Deriva: trascinamento esercitato da un fluido in movimento su un corpo che vi è immerso o che galleggia su di esso. Non c’è bisogno di chissà quale fantasia per capire di quale fluido si tratta (il buon De Andrè – sia benedetta la sua memoria – cantava: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. Come direbbe Ceronetti, metto volentieri questo pensiero tra i cento più belli del mondo).  

   Lo so: a chi interessa, ormai, il lato poetico della vita? Forse che con la carta igienica paghi la spesa? Roba da ingenui, dilettanti in fatto di lotta per la vita. Se il pianeta ha la diarrea, è forse colpa mia?

  Tempo fa, un uomo innamorato mi disse: se ogni volta che ti penso crescesse un albero, il mondo sarebbe pieno di foreste. L’uomo l’ho dimenticato, la frase no. Solo un ingenuo penserebbe: evidentemente non mi pensava abbastanza.

Il pianeta, dicevo, ha la diarrea e preferiamo affogarci dentro, sommersi dai miasmi fetidi di una fermentazione lenta e inarrestabile. Ammetto che parlare della Casa di noi tutti  in questi termini urta la mia sensibilità poetica, ma a questo serve la lanterna del filosofo: vedere. Puoi chiamarla cacca, merda, feci, sterco, escrementi, popò. Puzza uguale.

   Non possiamo neppure augurarci di poter tirare lo sciacquone per risolver la faccenda: presto anche l’acqua finirà. E comunque, dove finirebbe l’escrezione? Fra le unghie dell’Orsa maggiore?

   Sono perplessa. Provo a consultare Maimonide ma non fa al caso mio. Ritorno a Ceronetti e una frase mi colpisce: ‘In questo mondo sempre più disumano io sono un pesce fuor d’acqua’. Il filosofo non è più tanto ignoto o, se lo è, lo è perché il mondo ha scelto di non sapere.

   Nella sua botte, Diogene si proclamava cittadino del mondo intero. Una volta, uscito con una lanterna quando ancora era giorno, rispose a chi gli chiedeva cosa stesse facendo: ‘Cerco l’uomo’.        

 Si parla spesso di estinzione. La specie più a rischio è, lo vedo chiaramente, quella umana. Siamo arrivati ben oltre le colonne d’Ercole, ma non sappiamo fare il periplo del nostro cuore. Ingenuità, direbbe qualcuno. Io la chiamo Innocenza.

   I Greci usavano la parola eironeia per indicare la finzione, la dissimulazione, il dire il contrario di ciò che si pensa, al fine di ridicolizzare o enfatizzare concetti per suscitare una risata. Nella profondità delle cose, notava Rilke in una lettera a un giovane poeta, l’ironia non scende. E la deriva, la nostra deriva, è questione tremendamente seria. Non è un’etimologia, ma una malattia (diagnosticata da menti brillanti). Curabile, se presa in tempo. Il paziente ha quasi otto miliardi di arti e un numero incalcolabile di cellule. Soffre in silenzio.     

   Non basta un clistere di indignazione né una trasfusione di sapienza e nemmeno un suffumigio di speranza. Per curare serve l’innocenza. Quella del biancospino.

Ahimsa paramo dharma, "L'innocenza è il supremo precetto" (Mahabharata

Uccellini, olio su tela di juta (20x25) 2019 work in progress


 

Il dotto divenuto cieco

C’era un uomo dottissimo – il suo nome era Khaleb - che aveva accumulato una tale conoscenza da non riuscire più a contenerla. Era diventato così malinconico che aveva smesso di ridere e tutto intorno a lui si era fatto nero, nero come la sua bile. La sua sete sembrava aver asciugato anche il suo corpo e il cuore si era fatto secco come un fico. Si recò quindi da un medico, pregandolo di guarirlo. ‘Ti asterrai da ogni lettura, scrittura, calcolo, ragionamento, speculazione... fino alla prossima luna’. Facile, pensò il dotto, ma dopo tre giorni era di nuovo sui suoi libri. Allora cominciò a sudare freddo: tremore, incubi notturni, manie di persecuzione, paralisi.

Fu chiamato il medico: ‘E ti asterrai anche dal bere latte’ e se ne andò. Il malato, però, peggiorò rapidamente e quando fu sul punto di morire, il medico tornò. ‘Pregheremo insieme fino alla prossima luna’. Ma il dotto non era neppure in grado di pronunciare il suo nome e, comunque, non pregava mai. ‘Pregherò io per te’. Tirò fuori il suo rosario, accovacciò le gambe e chiuse gli occhi. Dopo un po’, un profumo di rosa si diffuse per tutta la stanza. Il malato smise di tremare e il corpo si scaldò. ‘Ma attento! Durerà quanto basta per trovare la porta del giardino.’ gli disse il medico prima di congedarsi.

Il dotto, guarito, tornò ai suoi libri e ai suoi cavilli, ignorando le parole del medico. Presto si ammalò di nuovo e di nuovo chiamò il medico. ‘Non posso fare più nulla per il tuo corpo, ormai. D’altronde, ti avevo avvisato’. ‘Morirò, dunque?’. ‘No, non morirai. Ma resterai cieco’. Il dotto, preso dal terrore, lasciò tutto e partì. Viaggiò in lungo e in largo, finché giunse in un paese dove si diceva ci fosse un meraviglioso giardino. Vi si recò subito per visitarlo, ma calò il buio all’improvviso e non riuscì a trovare la porta. Continuò a cercare, ma invano. Esausto, chiuse gli occhi e si addormentò.

Alle prime luci del mattino, il profumo delle rose inondò le sue narici e lo destò. ’Ma... non ci vedo più!’ E cominciò a ridere come mai prima.

(tratto da ROSVITA)